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Ipofosfatasia: la storia di una malattia devastante.

di
Ruggiero Corcella

Luisa Nico, 57 anni, racconta il suo percorso tormentato con questa malattia rara ereditaria, metabolica e sistemica. Adesso è presidente dell’Associazione pazienti ipofosfatasia e si batte per sostenere chi ne ha bisogno, facendo informazione e sensibilizzazione sulla patologia.

L’ipofosfatasia è una malattia rara ereditaria, metabolica e sistemica, che può portare distruzione e deformità delle ossa, profonda debolezza muscolare, convulsioni, insufficienza respiratoria e persino morte. La malattia colpisce persone di tutte le età con un ampio spettro di manifestazioni cliniche e un sostanziale impatto negativo sulla qualità della vita. Non sono pochi i pazienti in Italia affetti da ipofosfatasia, nonostante sia molto difficile stimare l’incidenza reale a causa della difficoltà di fare diagnosi. Alcune evidenze di letteratura indicano per le forme severe una prevalenza di 1 persona su 300.000. I pazienti molto spesso attendono anni prima di una corretta diagnosi, conducendo una vita tra sofferenze e isolamento.

Diagnosi in ritardo

A causa della sua complessità e dell’eterogeneità delle sue manifestazioni, l’HPP spesso non viene diagnosticata o viene diagnosticata in modo errato, portando a un importante ritardo diagnostico, di 10 anni in media, e a una conseguente evoluzione della malattia nel tempo.

Chi conosce bene cosa significhi vivere con l’HPP è Luisa Nico, presidente dell’Associazione Pazienti Ipofosfatasia (Api). Luisa ha 57 anni, vive a Roma, ha studiato medicina, studi però non ultimati per ragioni familiari e personali. A 49 anni, dopo tante sofferenze e con molto ritardo, le è stata diagnosticata l’HPP.

«L’ipofosfatasia è insidiosa, subdola e faticosa da affrontare. Essendo una malattia metabolica e non specifica solamente dell’osso, causa astenia, debolezza cronica, oltre che naturalmente fratture frequenti e continue sedute odontoiatriche già a partire dalla tenera età, con ripercussioni economiche non indifferenti. Tutto questo è amplificato quando non si sa dare un nome alla propria malattia. Avere l’ipofosfatasia, nel quotidiano, significa avere difficoltà a fare una semplice passeggiata, a guidare la macchina, a firmare un documento, a svolgere un lavoro o fare le pulizie. Vivere soli è complicatissimo. La presenza di un caregiver è essenziale».

Una malattia che confonde

Dalla testimonianza emerge quanto la malattia sia confondente e sovrapponibile a molte altre condizioni cliniche, più comuni e facili da riscontrare per i medici. «Spesso l’ipofosfatasia viene confusa con l’osteoporosi, le microfratture che non vengono diagnosticate si confondono con la tendinite. Un’errata diagnosi comporta trattamenti anche dannosi, che non solo non risolvono la malattia, bensì provocano conseguenze più importanti. Una diagnosi sbagliata può incidere anche sulla sfera personale e sociale dei rapporti».

Luisa crede nella cooperazione tra specialisti: «È fondamentale per la corretta diagnosi e una tempestiva preso in carico dei pazienti. È necessario investire nella sanità, la ricerca deve essere uno dei principali destinatari dei finanziamenti perché solo in questo modo si può dare un nome e una cura alle malattie rare. Le persone affette da HPP esistono ed è importante che non vivano da sole».

In occasione dell’incontro “Ipofosfatasia – Il ruolo della cooperazione multistakeholder nella gestione del paziente”, è stato presentato un approfondimento sulla malattia e i maggiori bisogni non soddisfatti di pazienti e caregiver.

Servono diagnosi precoce e individuazione tempestiva dei pazienti

Cosa fare? Secondo i professionisti, occorre focalizzarsi su due concetti importanti: la diagnosi precoce e l’individuazione tempestiva dei pazienti. È cruciale adottare un approccio integrato e collaborativo. Pertanto, la formazione e la sensibilizzazione dei medici sono fondamentali per mantenere alta la consapevolezza su questa condizione rara.

Il ruolo dei Mmg e degli specialisti

Il dottor Maurizio Mazzantini spiega: «L’ipofosfatasia è una malattia multi-sistemica che può manifestarsi in modo peculiare variando da soggetto a soggetto. Il Registro Globale HPP evidenzia un ritardo diagnostico anche di decadi. È importante capire come intercettare il paziente il prima possibile. È fondamentale che i medici abbiano conoscenza dell’attività della fosfatasi alcalina e prescrivano questo esame ogni qual volta ci siano condizioni di dubbio».

Coinvolgere i pediatri di base

Il dottor Marco Pitea aggiunge: «Basterebbe un semplice dosaggio ematico per porre il sospetto di questa condizione. In caso di sospetto il pediatra di famiglia potrà inviare il paziente ai centri di riferimento individuati a livello regionale. Altre figure importanti sono il neurologo pediatrico, l’ortopedico e il dentista, il quale può essere consultato per primo, poiché si verifica spesso la perdita dei denti decidui prima dei 5 anni».

Ripensare la presa in carico

Per affrontare la malattia è necessaria la cooperazione multistakeholder. La corretta gestione dei pazienti richiede una diagnosi appropriata, che passa dalla conoscenza dei “red flags”. La formazione continua, la definizione di linee guida specifiche e la creazione di reti di collaborazione tra specialisti sono strumenti indispensabili per ridurre i ritardi diagnostici e garantire interventi tempestivi ed efficaci.


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