News

L’urlo silenzioso del ceto medio tradito.

C’è un’Italia che non si lamenta. Non grida, non urla, non incendia le piazze, non si arrampica sui balconi con slogan apocalittici. È un’Italia silenziosa, che si alza presto, accompagna i figli a scuola, paga le tasse, fa la spesa, firma bonifici per le attività extrascolastiche, compila moduli per l’Erasmus, corregge i compiti di matematica la sera. È il ceto medio, quello vero. Non la caricatura da talk show, non la bandiera sventolata a ogni campagna elettorale. È l’Italia che tiene in piedi l’Italia. E oggi ha paura.

La paura del ceto medio non è teatrale. Non ha l’odore della tragedia, ma quello più inquietante dell’erosione lenta. È la paura di non farcela più. Di vedere evaporare il risparmio, la sicurezza, il futuro. Di scivolare giù, piano ma inesorabilmente. Non è un tracollo, è un logoramento.

Secondo un rapporto, più dei due terzi degli italiani si sentono di ceto medio. Ma dietro questo orgoglio identitario si nasconde un disagio profondo: l’82% degli occupati ritiene che il proprio stipendio non rifletta il valore delle proprie competenze. Il 74% pensa di meritare molto di più. Il ceto medio è colto, responsabile, competente. Ma si sente tradito.

È come se il contratto sociale fosse stato stracciato. Tu studi, lavori, risparmi, cresci i figli, ti comporti bene… e in cambio ricevi stabilità, mobilità sociale, una prospettiva. Questo era il patto. Oggi non vale più. Oggi studi e guadagni meno. Investi in formazione e tuo figlio parte per Berlino o Toronto. Costruisci competenze e ti trovi con tasse che ti stritolano e servizi pubblici inadeguati. Il 51% delle famiglie di ceto medio si sente ancora “coperto”, ma il dato è in calo. Cresce invece chi si dichiara in ansia o insicuro. La sicurezza, in fondo, è la vera moneta della democrazia.

La democrazia ha bisogno del ceto medio perché è la sua spina dorsale. È lì che si formano le opinioni temperate, le scelte ponderate, la fiducia nelle istituzioni. Quando il ceto medio si sgretola, la democrazia si polarizza. Quando le persone smettono di credere nella possibilità di migliorare la propria vita con il merito, iniziano a cercare scorciatoie. E così cresce il populismo, si inacidisce il discorso pubblico, si rompono i ponti tra classi, territori, generazioni.

Il ceto medio è anche la sede della competenza. In un mondo complesso, fatto di crisi climatiche, intelligenze artificiali e geopolitiche fluide, non è secondario restituire autorevolezza a chi sa, a chi ha esperienza, a chi dirige con responsabilità. Eppure oggi lo Stato tassa con accanimento proprio quei redditi che nascono dal lavoro e dall’intelligenza, scoraggiando chi potrebbe essere un faro nel buio. Il 47% degli italiani di ceto medio pensa che non convenga lavorare di più per guadagnare di più. Perché dopo una certa soglia ti portano via tutto, e nessuno ti ringrazia.

È un messaggio devastante. Dice: non serve impegnarsi. Non vale la pena fare sacrifici. Non conviene restare qui. E infatti il nuovo sogno delle famiglie italiane è veder partire i figli. Il 51% vorrebbe che trovassero lavoro all’estero. Il 35% sogna per loro una vita in un altro Paese. È una sconfitta nazionale. È il sintomo più chiaro di un Paese che non crede in se stesso.

E allora, come si salva il ceto medio? La risposta è semplice, ma non facile: si salva con rispetto. Serve un fisco che premi il merito, non lo punisca. Serve un welfare che non sia solo un guscio svuotato, ma una rete reale, concreta, integrata. Serve valorizzare le competenze, anche quelle dei pensionati, che potrebbero trasmettere sapere invece di essere considerati un peso fiscale. Serve restituire fiducia. Perché il ceto medio non chiede miracoli. Chiede coerenza.

Ma soprattutto, serve una narrazione diversa. Il ceto medio non è un problema da risolvere. È una risorsa da proteggere. È il luogo dove si coltivano i valori civici, dove si insegna il rispetto della legge, dove si trasmette la cultura del lavoro e della responsabilità. È la scuola invisibile della democrazia.

Se il ceto medio si piega, l’Italia si spezza. Se il ceto medio arretra, si allargano le disuguaglianze. Se il ceto medio si stanca, si rompe il patto sociale. È tempo di ascoltare questo silenzio. Perché è lì, in quella fatica quotidiana, che si gioca il futuro della Repubblica.


Articoli Correlati

Pulsante per tornare all'inizio