Solo con trattamento di sostegno vitale.
La Corte costituzionale ha ribadito le sentenze precedenti, confermando che è legittimo subordinare la non punibilità dell’aiuto al suicidio al requisito che il paziente necessiti di un trattamento di sostegno vitale, come evidenziato nei casi del 2019 e del 2024. Questo approccio non rappresenta un progresso per pazienti, come quelli oncologici, che spesso non rispondono a tale requisito.
Rischio di processo – La decisione potrebbe avere ripercussioni su chi ha assistito pazienti terminali nel recarsi all’estero per il suicidio assistito. I giudici hanno affermato che limitare l’accesso a questi pazienti non è discriminatorio e non viola il diritto all’autodeterminazione; è necessaria una protezione per evitare che persone vulnerabili siano influenzate da fattori esterni. Si sottolinea che l’autodeterminazione deve essere equilibrata con il dovere dello Stato di proteggere la vita umana, ritenuta un diritto fondamentale.
I casi trattati – I due individui coinvolti, un uomo di 82 anni e una donna di 70, non erano mantenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale. Non avevano tentato di accedere al suicidio assistito in Italia per mancanza dei requisiti previsti dalla sentenza 242 del 2019. Entrambi si erano rivolti a un attivista per ricevere assistenza in Svizzera e quest’ultimo si era autodenunciato al rientro in Italia.
Richiesta al Parlamento – La Corte ha rinnovato l’appello per una legislazione sul fine vita, rilevando che nel Paese non esiste un accesso universale e equo alle cure palliative e che ci sono lunghe liste d’attesa, mancanza di personale preparato e distribuzione disomogenea delle risorse sanitarie. La presa in carico socialsanitaria è per spesso insufficiente.
Posizione della procura – La Corte ha ritenuto infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate da una giudice, che sosteneva che un malato terminale possa scegliere di farsi aiutare a morire anche senza un trattamento di sostegno vitale. La procura ha affermato che l’ assistente al suicidio non è punibile e ha paragonato il rifiuto di tali trattamenti a una scelta di non sottoporsi a un accanimento terapeutico.
Motivazioni – I giudici hanno confermato la necessità del requisito di dipendenza da un trattamento di sostegno vitale per accedere al suicidio assistito. Non è richiesto che il paziente inizi il trattamento solo per poter chiedere di morire. Inoltre, non è discriminatorio limitare l’accesso a tali procedure solo a quei pazienti, sottolineando il margine di discrezionalità del legislatore nelle scelte sul tema.
Pericoli di abuso – È essenziale stabilire requisiti e procedure per prevenire abusi a danno di persone vulnerabili. La Corte ha evidenziato che il diritto di morire, in un contesto dove le risorse sono limitate, potrebbe essere percepito come un dovere di non essere di peso, il che contrasta con il principio di rispetto della dignità umana. La Repubblica ha il compito di dimostrare solidarietà verso le persone in difficoltà, garantendo un sostegno continuo.
Accesso alle cure palliative – Garantire forme adeguate di assistenza sanitaria domiciliare è cruciale per influenzare le scelte dei pazienti. È importante fornire a chi soffre malattie inguaribili strumenti che allevino l’isolamento e facilitino l’interazione sociale. Inoltre, non va dimenticato il sostegno per chi assiste i pazienti in situazione di difficoltà. La mancanza di un accesso equo alle cure palliative deve essere affrontata, visto che sussistono liste d’attesa elevati e una distribuzione inadeguata delle risorse. La Corte ha ribadito la necessità di un intervento legislativo per attuare quanto stabilito nella sentenza 242 del 2019.