Motivi dello sciopero dei ricercatori universitari.
Nelle università italiane operano circa 35mila ricercatori e ricercatrici con contratti a tempo determinato, caratterizzati da salari bassi e mancanza di possibilità di stabilizzazione. Molti di loro hanno protestato contro un disegno di legge proposto che vorrebbe introdurre nuove categorie di ricercatori con contratti flessibili, in contrasto con la promessa di maggiori tutele da parte del governo, mai realizzata a causa di limitazioni finanziarie.
Negli ultimi 15 anni, la percentuale di lavoratori precari nelle università è aumentata, passando dal 20% del 2009-2010 al 42% nel 2024. La precarizzazione è iniziata con la riforma del 2010, che ha sostituito i ricercatori a tempo indeterminato con categorie a tempo determinato. Oltre ai ricercatori a tempo determinato, ci sono anche gli assegnisti di ricerca, che lavorano su progetti specifici, ma spesso rimangono per anni in attesa di stabilizzazione, spostandosi tra università senza certezze.
Nel 2022 è stata introdotta una legge che ha abolito alcune tipologie di contratto, sostituendole con un nuovo contratto di ricerca, dotato di più tutele. Tuttavia, la situazione è complessivamente peggiorata, poiché l’attuale governo ha prorogato le vecchie categorie contrattuali, ritardando l’attuazione delle nuove norme. La tempistica di cessazione degli assegni di ricerca per le università è fissata per il 2025.
I nuovi contratti, sebbene più tutelanti, sono limitati dalla mancanza di fondi, poiché le università non possono permetterseli in quantità adeguata rispetto all’aumento dei costi. Le leggi di bilancio hanno portato a una significativa riduzione del fondo di finanziamento ordinario delle università.
La proposta di riforma prevede categorie come il “professore aggiunto” e contratti post-doc, gestiti senza bandi pubblici. Un’associazione ha sollevato preoccupazioni sulla riforma, ritenendola in contrasto con la stabilizzazione dei precari. Anche il sindacato ha presentato un esposto.
Sostenitori della riforma affermano che l’attuale contratto nazionale limita l’assunzione di ricercatori a causa della sua rigidità e costi, mentre i gruppi di protesta ritengono che i fondi per la ricerca siano insufficienti.
Secondo i dati, l’Italia investe solo l’1,37% del proprio PIL in ricerca, a fronte di un obiettivo europeo del 3%. Solo il 35,6% di questi fondi proviene da istituzioni pubbliche. La protesta continua nelle università, dove si chiedono stabilizzazione, maggiori finanziamenti e la cancellazione della riforma proposta. Tuttavia, per molti ricercatori precari è difficile manifestare, dato che i loro contratti non offrono tutele.