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Mike Bongiorno, il figlio parla di crisi e minacce.

Il ricordo: «Rispetto a lui mia mamma aveva uno spirito anarchico e a suo modo hippy: si conobbero negli anni ’70 e si amarono per sempre. Quando Fiorello cominciò a sdoganare le sue gaffe, si rese conto che poteva giocarci con tutta la sua autoironia»

«Tu sei il figlio di mezzo — mi diceva scherzosamente — quindi non conti». Nicolò Bongiorno, regista e produttore di documentari di ricerca storica e naturalistica di apprezzabile valore artistico, è figlio di Daniela Zuccoli e fratello del primogenito Michele e dell’ultimo nato Leonardo. Oggi, alla vigilia del 101° anniversario dalla nascita, condivide i ricordi di papà Mike. «Era una frase che ogni tanto saltava fuori ma lo comprendevo. In fondo è normale che il primo figlio guidi gli altri, e che l’ultimo sia il più coccolato».

Qual è il suo primo ricordo con suo padre?
«Avevo forse 3 anni ed eravamo a Cervinia, luogo del cuore suo e di tutti noi. Papà era in poltrona, in ciabatte, con il suo amato Corriere della Sera, e mi sorrideva. Torniamo spesso in quella casa, con tutti i ricordi che abbiamo lì, non avremmo mai potuto separarcene».

Giocava con voi bambini?
«Molto spesso. Aveva un lato molto infantile che a volte si manifestava anche in tv. Da adolescente, ovviamente, ricordo meno momenti ludici tra noi, ma quando eravamo piccoli ci prendeva in braccio per manifestare il suo affetto. Per la sua generazione non era così scontato, ma sapeva lasciarsi andare».

Partecipava alla sua vita scolastica?
«Dei colloqui con i professori si occupava mamma, ma papà non mancava mai gli eventi pubblici, come per esempio le recite. In compenso, a cena si informava della mia giornata. Era rigoroso e aveva aspettative alte».

Da lei cosa si aspettava?
«Mi prendeva in giro chiamandomi “Zigeunerbaron”, Zingaro Barone, citando l’operetta di Strauss. Mi ero appassionato di filosofia e alla storia del folklore ed era un po’ preoccupato che diventassi forbito ma senza certezze lavorative. Ovviamente non mi ha mai forzato a cambiare percorso. In tema di studi, credo gli pesasse non aver proseguito l’università nonostante avesse “insegnato” l’italiano agli italiani, anche se una laurea Magistrale Honoris Causa in Televisione, cinema e produzione multimediale dalla Iulm, alla fine, è arrivata anche per lui».

Quando ha capito che suo padre «era» la televisione?
«A 12, 13 anni, cominciando a percepire l’attenzione per il suo lavoro da parte dei professori e dei giornali. I compagni? Molto meno, forse perché frequentando una scuola molti di loro erano stranieri e non tutti conoscevano il “Mike” nazionale».

Percepiva l’affetto della gente?
«Di continuo, specie nei viaggi quando i turisti lo fermavano per salutarlo. Il problema è che lui non si sottraeva, anzi: si concedeva così tanto che una semplice passeggiata diventava un percorso a tappe».

A casa parlava di lavoro?
«Mai. Staccava completamente e teneva tutto nel suo studio dove lo ricordo al telefono o a preparare le schede dei concorrenti e la trasmissione del giorno dopo, spesso fino a notte fonda. Diverso il discorso per i regali che riceveva dai partecipanti dei suoi quiz. Ricordo di aver cenato per anni a base di culatello, torte, mele, vino e caciotte. Per non parlare degli sponsor: il prosciutto cotto Rovagnati, per esempio, era un pasto obbligato».

Qual era il «vostro» spazio d’intimità?
«Ci univa lo sci e il tennis. Ricordo molti momenti insieme a parlare in seggiovia, poi a rincorrerci nella discesa e a mangiare nei rifugi chiacchierando di sport e tanto altro. Con Michele condivideva la passione per la musica. Amava il country e il jazz perché — diceva — lo rilassavano, ma penso che fosse anche perché lo faceva tornare agli anni vissuti negli States, cosa che faceva anche ascoltando le stazioni americane in auto per informarsi sulle ultime notizie. Poi, quando era già avanti con gli anni, ha cominciato a viaggiare con Leonardo e mamma e credo abbia passato più tempo con lui di tutti quanti noi».

Il rapporto con mamma?
«Rispetto a lui aveva uno spirito anarchico e a suo modo hippy; si conobbero negli Anni 70 e si amarono per sempre. Quando avevo 6 anni passarono un brutto momento di crisi, ma per fortuna tutto rientrò in fretta consolidandosi con la nascita di Leonardo».

Che legami aveva con il Piemonte?
«Sono noti e profondi. Dal trasferimento con la mamma Enrica Carello in una casa di via Marenco al Liceo Rosmini e al salto in alto che in gioventù praticava in un Circolo sul Po; fino all’attività giornalistica e all’arresto da parte dei nazisti in Val d’Ossola».

E con la sua squadra del cuore?
«Si sa, era il tifoso numero 1 della Juve e ci ha attaccato questa malattia. Come potevamo fare altrimenti con un amico di Boniperti che periodicamente riceveva le telefonate dall’avvocato Agnelli? Era orgoglioso di aver seguito da giornalista il Toro al Filadelfia e la tragedia di Superga lo aveva segnato per sempre».

In Piemonte fu anche trafugata la sua salma. Ha voglia di parlarne?
«Fu una vicenda surreale, resa ancora più cupa dalla persecuzione di sciacalli che ci ricattavano minacciando aggressioni e rapimenti. Per fortuna tutto si è risolto anche grazie a chi si è trasformato in un investigatore da film. Grazie a lui e alle forze dell’ordine, la bara è ricomparsa e senza pagare alcun riscatto. Ora riposa nella tomba della famiglia Carello al Cimitero Monumentale di Torino».

Un cerchio che si chiude?
«C’è ancora spazio per chiuderlo in maniera positiva. Dopo un film, stiamo lavorando a una mostra a Torino che lo riunisca alla sua città di formazione. Se poi un giorno ci fosse una via o anche solo un’aiuola torinese intitolata a lui, sarebbe un sogno che si avvera».

Qual è l’ultimo ricordo insieme?
«Due giorni prima di morire improvvisamente, poco dopo aver detto qualcosa alla mamma, era venuto in ospedale a vedere nostra figlia Luce Rosa, appena nata. Quel giorno ci siamo abbracciati per l’ultima volta».

Qual era la vera forza di Mike in Tv?
«Era capace di creare un’empatia unica. Sapeva unire le persone e le famiglie davanti al piccolo schermo e con le sue domande ha legato la storia del nostro Paese. Dalla ricostruzione con Lascia o raddoppia a Rischiatutto, e poi con il lancio della tv commerciale, ha accompagnato generazioni con il motto di “allegria”. È una parola semplice che dice tutto e niente ma che nella sua sintesi è uno slogan molto più profondo di quanto allora non si potesse immaginare».

Un’ultima curiosità. Quanto c’era di vero nelle proverbiali gaffe di Mike?
«Era davvero sempre spontaneo, ma specie da quando Fiorello cominciò a sdoganarle, si rese conto che poteva giocarci con tutta la sua autoironia».


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