La Chiesa delle Americhe e l’alleanza nella Sistina.
Gli italiani in ordine sparso. E il segretario di Stato potrebbe restare
È stata la vittoria di un’alleanza tra i cardinali delle Americhe e i sostenitori di Pietro Parolin, con la Curia. Apparentemente, il segretario di Stato vaticano è il grande sconfitto del Conclave. In realtà, è stato decisivo nell’elezione del primo Papa statunitense. Quando ha visto che i consensi tra lui e Francis Prevost si contrapponevano, e che una parte degli italiani gli remava contro, ha preferito non forzare la situazione. E per non dividere ulteriormente una Chiesa segnata dai contrasti, ha dirottato tutti i consensi che aveva sul futuro Leone XIV. D’altronde, i rapporti tra i due sono ottimi: tanto che qualcuno non esclude la conferma di Parolin alla Segreteria di Stato, e con un ruolo più incisivo di quello assegnatogli da Francesco. Si vedrà. Ma è certo che ci sarebbe stato un contatto poco prima del quarto scrutinio, che ha sbloccato la situazione.
A questo punto conta poco il ridimensionamento dell’Europa e dell’Italia come «fabbriche dei Pontefici». In alcuni la delusione è palpabile, nonostante la corsa un po’ goffa ad appropriarsi di Leone XIV. D’altronde, stavolta la situazione non era quella del 2013. Nelle Congregazioni non si è respirato il pregiudizio antitaliano e anticuriale, in parte giustificato, che dodici anni fa aveva portato all’elezione di Jorge Mario Bergoglio dopo la rinuncia di Benedetto XVI. Le tensioni che hanno attraversato la Chiesa durante il papato argentino sono state messe da parte, cercando di sfruttare l’eterogeneità dei 133 elettori della Cappella Sistina per creare un fronte massiccio e il più possibile compatto. Si è parlato di un compromesso, ma è stato qualcosa di più: uno sforzo di unità e di pacificazione che, novità spiazzante, ha preso corpo con una candidatura «yankee».
Avere scelto un americano del Nord che porta con sé vent’anni da missionario in Perù e i valori di una famiglia di immigrati europei, segna un salto in avanti e una sfida insidiosa. Ormai il presidente Usa non è solo il secondo americano più famoso nel mondo. Dovrà fare i conti con l’«altra America» incarnata da Leone XIV: inclusiva all’opposto di quella trumpiana che deporta gli immigrati; solidale e fraterna con l’America latina, rispetto alla colonizzazione economica e perfino religiosa attuata dalla destra che finanzia le sette evangeliche protestanti in funzione anticattolica. A Roma non c’è più un argentino del quale, in modo strumentale fino al ridicolo, si poteva dire che era «marxista». Nel cuore della più grande potenza economica e militare è spuntato un Papa moderato, tradizionalista sulla dottrina, che offre dell’America il volto migliore: quello oscurato da un capitalismo e una politica aggressivi e regressivi.
Negli ultimi anni, parlando con i vertici vaticani si registrava sempre una preoccupazione: i rapporti con l’episcopato degli Stati uniti. Non dipendeva solo dalla vittoria, per ben due volte, di Trump, ma dalla cultura che esprime; e che a novembre gli ha dato il 56 per cento dei voti cattolici americani. Con Francesco, nel tempo le relazioni con l’episcopato degli Stati uniti erano peggiorate, nonostante i cardinali Usa lo avessero appoggiato al Conclave. Per reazione, Bergoglio aveva sfidato il mondo ecclesiastico dell’Oltre Atlantico designando vescovi «liberal» in grandi città come Chicago e Washington; o non promuovendo cardinali arcivescovi ritenuti non abbastanza in linea, come quello di Los Angeles: la principale diocesi con i suoi «latinos». Il risultato è stato di polarizzare le posizioni e le tensioni, già latenti durante la presidenza di Joe Biden.
«Anche l’Amministrazione Biden, per quanto meno muscolare di quella trumpiana», si osservava qualche mese fa alla Segreteria di Stato, «è stata molto dura sugli immigrati. Si lamentano con noi sia i vescovi Usa che quelli latino-americani. A volte è meglio un presidente non cattolico alla Casa Bianca». Col protestante Trump l’imbarazzo è minore. Ma l’arrivo di Leone XIV cambia qualità e livello del confronto. C’è chi, con una punta di esagerazione, paragona l’elezione di Prevost a quella con la quale nel 1978 la Chiesa cattolica scelse il polacco Karol Wojtyla come un cuneo nel sistema sovietico. Stavolta, il cuneo di questo ex missionario agostiniano dall’aria tranquilla e dai convincimenti dottrinali ferrei riflette la strategia di una Chiesa decisa a contrastare modelli di vita che sembrano non avere bisogno della fede religiosa.
Leone XIV riflette un potere morale che sottolinea una curvatura religiosa e pacificatrice: al proprio interno, prima di tutto; e un globalismo che con i «ponti» scomunica la cultura dei «muri». Il messaggio va oltre i confini delle Americhe. E sembra destinato a ricalibrare le relazioni controverse tra Santa Sede e Cina, con le sue provocazioni continue sui vescovi, e a proiettarsi sui conflitti in Medio Oriente e Ucraina. Esiste poi un ultimo capitolo, affiorato nelle Congregazioni. Il cattolicesimo ricco e generoso dell’America è stato per decenni il polmone finanziario della Chiesa cattolica, insieme con quello tedesco. Ultimamente, questa fonte si è inaridita. C’è da chiedersi se il Papa statunitense, oltre a una ricucitura obbligata con i vescovi del proprio Paese, riuscirà a riaprire quel canale, senza deflettere dal mandato che il Conclave gli ha affidato.