Storia

La guerra non genera pace, è solo un’illusione.

Il bombardamento di siti iraniani segna un nuovo passo nel conflitto mediorientale, inserendosi in una più ampia crisi internazionale. Oltre alla sua immediata portata militare, questa azione evidenzia come la logica della forza possa diventare l’unico modo di interazione tra le potenze globali. L’idea che l’uso massiccio della forza possa garantire la pace rappresenta una tragica illusione, già smentita dalla storia.

Questa illusione alimenta un discorso pubblico in cui la guerra riacquista una legittimità paradossale. Una dichiarazione significativa riguarda l’affermazione di un leader che, subito dopo l’attacco, ha ringraziato un ex presidente americano, sottolineando come «la pace si costruisce con la forza». Questa frase ingannevole confonde la pace con la guerra, poiché la pace imposta con la forza non è pace, ma imposizione e dominio.

La vera pace non è solo l’assenza di guerra, ma il risultato di un processo di riconoscimento reciproco, dialogo e costruzione di un ordine condiviso. Essa nasce dalla fatica del confronto e dalla volontà di risolvere conflitti. Questo processo è lento e spesso frustrante, ma essenziale. Richiede diplomazia, giustizia e capacità di ascolto. Sostituire questa complessità con l’uso della forza è un ritorno alla barbarie, celato da una presunta razionalità geopolitica, una narrazione che sta dominando la scena internazionale.

Parole celebrative di conflitti, descrivendo l’attacco come caratterizzato da «magnifiche armi», contribuiscono a questa deriva. Tale estetizzazione della guerra evoca la propaganda di regimi autoritari, presentando il conflitto come spettacolo. Tuttavia, la guerra è distruzione, sofferenza e perdita irreparabile. Anche le democrazie, se seguono questa narrativa, rischiano di perdere la consapevolezza delle drammatiche conseguenze belliche: città in rovina, vite spezzate, civiltà annientate.

Preoccupa il fatto che stia venendo meno il fragile apparato giuridico costruito dopo la Seconda guerra mondiale, destinato a prevenire il ripetersi di tragedie passate. La Carta delle Nazioni Unite e il diritto internazionale, invece di costituire una barriera al ritorno dell’anarchia, vengono trascurati e derisi. In questo contesto, l’Onu si configura come un ente poco considerato.

Il disprezzo per il diritto internazionale è ancor più grave in un periodo caratterizzato da tensioni interconnesse. Anziché affrontare queste sfide in modo cooperativo, si torna a utilizzare il linguaggio delle minacce, come se il mondo fosse una scacchiera su cui muovere pedine sacrificabili per raggiungere un indistinto equilibrio di potere.

Questa direzione non conduce alla stabilità, ma a un conflitto globale, con numerosi focolai accesi: guerre asimmetriche, terrorismo, e odio diffuso. Le “vittorie” militari, sempre più simili a vittorie di Pirro, comportano perdite enormi, sia materiali che morali. È fondamentale fermarsi. Le democrazie devono lavorare per interrompere la spirale della violenza prima che diventi irreversibile, mantenendo fermi alcuni principi essenziali per chi cerca di difendere la libertà: non esistono soluzioni semplici a problemi complessi; la sicurezza non può prescindere dalla giustizia; e la pace non si costruisce umiliando l’altro, ma riconoscendo la sua dignità.

Ci sono ancora spazi per un cambiamento di rotta, che richiedono coraggio politico, visione storica e senso di umanità. È tempo che la politica torni a essere l’arte del possibile. Solo così si potrà uscire da questa impasse che sta trascinando il mondo verso il conflitto. La pace genuina è il risultato della giustizia, della memoria e di un futuro condiviso.


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