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Chiara Tramontano: «Giulia pronta a crescere Thiago da sola».

La sorella della 29enne uccisa: noi vittime collaterali, la nipotina si chiama come lei

«I sensi di colpa te li porti dietro per sempre. Non c’è niente della mia vita che non mi riporti continuamente lì, a mia sorella uccisa… Se mi fermo, penso e pensare è un tormento. Perciò, da due anni, non mi siedo su un divano, non vedo un film e, se mi alleno, i trenta secondi di pausa fra un esercizio e l’altro sono insopportabili… Se poi per un attimo mi diverto, penso che è ingiusto verso Giulia che non c’è più…».

Chiara ha gli stessi lineamenti di Giulia e gli stessi occhi grandi e buoni; solo che lei è castana, Giulia era bionda, la ricordiamo tutti in quella foto al mare, col pancione, prima che fosse uccisa dal compagno il 27 maggio 2023, insieme a Thiago che doveva nascere a luglio. Delle due sorelle, Chiara era la minore.

Oggi ha 28 anni, vive in Olanda e, quando torna a casa a Napoli, a tavola, i genitori apparecchiano ancora per cinque: «Il posto fra me e mio fratello resta vuoto: vuoto perché non vogliamo dimenticare». Si fa presto a dire «una famiglia distrutta». Ora, Chiara guarda i suoi coetanei e pensa: «Loro non devono spronare i genitori a uscire per una passeggiata, per una pizza, per lavorare. Loro non devono chiamarli ogni giorno per assicurarsi che siano ancora vivi… Mia mamma, per mesi, si fermava sul balcone al quinto piano con la scusa di fumare, ma non fumava: si limitava a fissare il vuoto, a misurare con lo sguardo l’altezza».

Ora, Chiara ha scritto un libro: Non smetterò mai di cercarti – Ogni parola è un passo verso di te, Giulia, in uscita oggi. Sembra più adulta e non solo perché ha già una carriera di successo. All’università di Eindhoven, si occupa di sviluppo di tecnologie per la diagnostica di tumori e malattie neurodegenerative, ha appena vinto un Marie Curie Post Doctoral Fellowship, fra le più prestigiose borse di studio per giovani ricercatori. È diventata grande, però, perché a volte la vita ci chiama a ribaltare i ruoli: «Se prima potevo telefonare a casa e raccontare patemi da figlia, ora, non lo faccio più. So che devo essere forte. Mio padre vive di “se solo” e “avrei dovuto”. Un padre che ha visto la figlia neonata grande come la sua mano ha un senso di protezione che l’accompagna per sempre, magari si chiede se ha dato troppa libertà, se si è fidato troppo. Mentre mamma, che ci ha trasmesso l’amore per la famiglia, pensa che, se non l’avesse fatto, forse, Giulia si sarebbe sfilata in tempo da quella relazione sbagliata. Il fantasma del senso di colpa è diverso per ciascuno di noi, ma viene a trovarci tutti, a turno».

Da lei perché viene questo fantasma?
«Perché io e Giulia nell’ultimo mese avevamo litigato. Non ci parlavamo da quando mi aveva detto che sarebbe andata a Ibiza con Alessandro. Venivano da un periodo di conflittualità, Giulia si era confidata con me e sapeva che in quella relazione non c’era nulla da salvare. Ma ha accettato quel viaggio per “ricucire”, senza confrontarsi con me. Mi sono arrabbiata e lei mi ha risposto che la vita era sua».

Cosa non la convinceva di Impagnatiello?
«Era assente, non accompagnava mai Giulia a Napoli, diceva che veniva e poi non veniva. Non sembrava uno che voleva costruire una famiglia, come sosteneva a parole. E mi sembrava manchevole di contenuti: con lui non sapevo mai di che parlare. Però, avrei detto che era un mediocre, un superficiale, ma non un violento. Era tutto concentrato sul suo lavoro, sosteneva che sarebbe diventato manager, ma non era vero. Mi chiedevo cosa mia sorella trovasse in lui. A oggi, non ho una risposta».

I criminologi l’hanno descritto come un «narcisista maligno». Che effetto le ha fatto questa definizione?
«Non lo riconoscevo perché io non ho conosciuto un assassino, le persone malvagie si presentano come innocue. Che fosse malvagio l’ho capito solo ora. Ora so che, quando ci siamo visti per l’ultima pizza a marzo, aveva già iniziato ad avvelenare mia sorella: ha mangiato accanto a mio padre mentre stava cercando di uccidergli la figlia e il bambino che aspettava. Per me è un essere immorale, non chiamatelo essere umano».

Chi era, invece, Giulia?
«Una ragazza di una sensibilità speciale. Si lasciava coinvolgere dal dolore degli altri, era una calamita per le persone in difficoltà: le ascoltava, cercava soluzioni, aiutava. Ma questa sensibilità la rendeva più facile da ferire. Ed era coraggiosa: a tutti i costi, aveva voluto frequentare l’Accademia per il turismo e, quando l’ha finito e con il Covid il turismo si è fermato, ha scelto di restare a Milano, senza uno stipendio, nell’incertezza, perché aveva un sogno e non sarebbe mai tornata a casa da sconfitta. Essere sopravvissuta a quelle difficoltà le aveva dato una forza tale che, incinta e col suo rapporto in crisi, era pronta a crescere Thiago da sola. Diceva: oggi, i bambini si crescono anche senza la coppia».

La cosa più difficile del processo che ha condannato l’assassino all’ergastolo?
«Vederlo a ogni udienza a un passo da noi. Come può un sistema giudiziario permettere che l’assassino sieda senza manette accanto alla famiglia della vittima? Ci sono stati momenti di grande frustrazione».

Essere la famiglia di una vittima di femminicidio in Italia significa anche accettare che l’assassino abbia più diritti di noi. Che cosa intende?
«Io e la mia famiglia siamo stati il pensiero secondario di tutti. Una vittima collaterale di femminicidio perde ogni volta che entra in aula. Mi riferisco a questo costo emotivo, e c’è anche un costo economico che abbiamo dovuto sostenere per seguire il processo».

Impagnatiello pagherà un risarcimento?
«Come? Da nullatenente? Ha chiesto accesso alla giustizia riparativa, ma qualsiasi tentativo sarà contestato da noi».

Perdonerà mai? Non desidera, in qualche modo, trovare pace?
«Io sono in pace, l’unico perdono che concederò è a me stessa per quello che avrei potuto fare e non ho fatto. Non ho bisogno di perdonare lui perché il dolore per mia sorella supera qualunque altro possibile sentimento. Questo libro è il primo atto per restituire a tutti la memoria di Giulia, per perdonarmi di aver consentito che la sua vita terminasse».

Lei abitava a Genova quando Giulia è morta, ora, vive in Olanda, perché questa scelta?
«Ho sentito che, come ricercatrice, ero diventata “la sorella di Giulia”, un caso pietoso. Mi sembrava che la gente mi guardasse chiedendosi “come fa a stare in piedi?”. Ho fatto domanda per un posto in Olanda».

Com’è stato ascoltare la sentenza?
«Ci siamo ritrovati al punto di partenza. Non ho vinto nulla, l’unico sprone per ricominciare a vivere è stata la nascita di mia nipote Giulia, figlia di mio fratello: per tutti noi, un piccolo cerotto su una ferita aperta».

Com’è, adesso, in casa, pronunciare il nome «Giulia»?
«È bello perché non ne stai chiamando una, ma due. Pronunciamo quel nome legato alla vita e non solo alla morte. Porta gioia e non solo dolore.»

Qual è la lezione di Giulia grande che vorrebbe trasmettere a Giulia piccola?
«Io ho imparato da Giulia a dare priorità ai sentimenti rispetto alla carriera. Oggi, so cos’è la felicità, perché l’ho persa. E da Giulia ho imparato ad ascoltare e accogliere invece che a giudicare. Oggi sono un po’ più simile a lei.»


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