Storia

Ungheria: 70 anni dopo, alleanza con i “russi invasori”

Nel 2026 ricorderemo i settant’anni dall’entrata dei carri armati sovietici a Budapest, che schiacciarono una rivoluzione iniziata con speranze di libertà. In meno di due settimane, gli ungheresi chiesero pluralismo politico, libertà di stampa, elezioni libere e il ritiro delle truppe sovietiche, persino l’uscita dal Patto di Varsavia.

Il Primo Ministro Imre Nagy fu tra i primi a subire le conseguenze: sequestrato, deportato e impiccato nel 1958 con l’accusa di tradimento. Il suo corpo, gettato in una fossa anonima, rappresentava un tentativo brutale di cancellarne la memoria. Negli anni successivi, il regime filo russo di Kádár creò un muro di silenzio attorno alla rivolta, presentandola come una “controrivoluzione fascista”. La memoria del ’56 sopravvisse in famiglia e tra gli esuli, ma fu espulsa dalla narrazione ufficiale. In Italia, nel 1956, il Partito Comunista decise di “comprendere” l’intervento sovietico, provocando una reazione in alcuni intellettuali che scelsero di distaccarsi.

Le immagini di Budapest in fiamme distrussero certezze ideologiche, mettendo in evidenza la distanza tra il socialismo ideale e quello realmente praticato nei Paesi dell’Est. Tuttavia, la sofferenza non garantisce saggezza: una vittima può divenire, se non carnefice, complice di nuove violenze. Oggi, nel cuore dell’Unione Europea, Budapest è governata da un leader che mantiene rapporti privilegiati con Mosca, favorendo i suoi interessi energetici e rallentando il sostegno all’Ucraina.

L’Ungheria di Viktor Orbán è vista come un avamposto russo nell’Unione Europea, sostenendo Mosca mentre ostacola le sanzioni. Orbán presenta la memoria del ’56 in una narrazione nazionale, riproponendo un mito patriottico dove la complessità storica è semplificata. Le immagini degli studenti che chiedevano libertà di stampa e elezioni vere combaciano con contraddizioni odierne, mentre la memoria viene piegata ai fini del potere.

La questione non è solo ungherese, ma europea: se un membro dell’UE diventa un cavallo di Troia per un regime autoritario, significa che la memoria storica non è stata assimilata. Le parole “mai più” rischiano di diventare formule rituali e inefficaci. La situazione attuale rappresenta una frattura irrisolta tra passato e presente, tra la Budapest dei giovani del ’56 e quella di un governo che mantiene rapporti con chi invade l’Ucraina.

Settant’anni dopo, il vero legame con Budapest ’56 non è nella celebrazione, ma nella capacità di riconoscere le stesse logiche di dominio. La memoria non è solo un museo, ma una scelta quotidiana: rifiutarsi di voltarsi dall’altra parte quando un altro popolo chiede libertà. Se Budapest ’56 deve ancora insegnarci qualcosa, è proprio questo: la libertà non è mai garantita, e la storia dimenticata agisce contro di noi.


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