Forza e guerra: il killer diventa eroe.

La guerra altera i confini, rende possibile ciò che è vietato e normalizza il sacrilegio. La sua essenza risiede nell’atto di uccidere, nel significato intrinseco della morte, e richiede sacrifici umani. Esige che chi uccide rimanga lucido, non perda mai il controllo di sé.
La frenesia è pericolosa; l’essere umano che agisce come un semplice assassino, per passione o rabbia, sul campo di battaglia si smarrisce. Chi uccide, con o senza divisa, patriota o fanatico, sa esattamente ciò che fa. La sua passione è una forma di eccitazione che si traduce in una forma di libertà assoluta.
Quale libertà è più totale di quella di infliggere la morte? Dalle guerre antiche fino ai conflitti moderni, i promotori di queste barbarie hanno sempre trovato giustificazioni, che si tratti di un rapimento o della difesa della patria. La guerra introduce un nuovo codice morale, e possiamo chiederci se sia mai stata davvero necessaria. Chi uccide, soldato o guerrigliero, avrebbe comunque trovato una motivazione in sé.
Uccidere insieme è esaltante; annulla la colpa, trasformando l’assassino in eroe ed offrendo una semplice spiegazione del mondo. Solo una minoranza di soldati si pentirà delle proprie azioni. La guerra jihadista esemplifica perfettamente questa dinamica, trasformando il delitto in un atto religioso.
Durante i due anni di rappresaglia a Gaza, si è registrato un aumento dei suicidi tra i soldati israeliani. Troppi civili e bambini uccisi, una guerra vergognosa anche dopo eventi tragici.
Statistiche simili potrebbero esistere per l’esercito russo o quello ucraino. Quasi ogni guerra appare sporca; chi non uccide civili? Le scuse sono sempre pronte. La guerra, in questo senso, è un fatto come tanti altri in questo mondo: un evento enorme, ma che non modifica nulla nell’intero panorama. Ci dicono che i torti saranno vendicati, ma il sangue versato sembra servire a poco.
Ho visto soldati e guerrieri, ma non ho mai incontrato qualcuno che si fosse dichiarato pentito per le proprie azioni. La maggior parte si vantava, considerandolo un lavoro ben fatto. La libertà di morte era per loro una forma di assoluta libertà: chi era morto era al di fuori della vita, e se si era vivi, questo bastava.
In Siria nel 2012, incontrai un ribelle che sognava di diventare ingegnere. Durante un assalto, dopo aver eliminato decine di soldati, mi raccontò soddisfatto: «Abbiamo avuto il piacere di calpestare i loro cadaveri».
Uccidere in guerra è una manifestazione di forza. Chi sperimenta la propria sopravvivenza uccidendo prova la gioia della vita e acquista un senso di onnipotenza.
Se ciò che spinge all’uccisione non fosse solo la coercizione ma anche un’illusione di immortalità? In guerra si uccide per sopravvivere, e uccidere può diventare una necessità.
I soldati che compirono atrocità in passato spesso non erano specializzati per questo tipo di crimine, eppure pochi scelsero di tirarsi indietro; chi lo fece lo fece più per nausea che per senso di colpa.
Un elicottero tentò di fermare i soldati in un massacro e, per farlo, dovette minacciarli con armi pesanti. La condizione di mediocrità e rassegnazione può rendere l’individuo capace di compiere atti violenti con relativa facilità.



