Storia

Lo zar e il legame con l’Urss.

Che cosa vede da venticinque anni nella sua vita di padrone-recluso del Cremlino? Cosa occupa la sua mente dentro quelle mura secolari, sotto le luci della gloria, all’ombra spessa del sangue e di ostinati faccia a faccia con la spietatezza, seduto su quelle poltrone a rimirare le stanze degli zar e dei segretari generali, ad attraversare corridoi a cui soldati spalancano le porte, a presiedere riunioni sulle “operazioni speciali”?

Un giorno dopo l’altro, un anno dopo l’altro, praticamente un secolo dopo l’altro. Vede e contempla perennemente se stesso come in un gioco di specchi che riflette all’infinito sempre la stessa immagine: quella dell’Unione Sovietica, la grande potenza proletaria, lo scudo e la lancia di una rivoluzione mondiale che non venne mai. C’è da diventare pazzi o strumenti di tale sistema e della sua possibile restaurazione.

La storia sovietica, il prima di quell’ottantanove del disastro in Russia, non è mai stata negata se non da piccole minoranze illuminate. Una grande zona di ombra che non si deve illuminare per le sue miserie ma solo percorrere, avvertendone le immense dimensioni; che danno piaceri tanto più intensi quanto più l’ombra si fa intensa e rifugge la luce. La restaurazione osservata è un soddisfatto cammino di ciechi. Nella volontà di salvaguardare i dogmi defunti del passato ci sono interessi concreti.

È bastata una felpa con quattro caratteri in cirillico “Cccp”, indossata dal ministro degli Esteri alla vigilia del vertice in Alaska. Un’allusione minacciosa e una soddisfatta constatazione di un successo politico. Il personaggio incarna la continuità di quel passato non solo per la biografia ma soprattutto per lo “stile” e l’astuzia nelle bufere della storia. Siamo al ritorno dell’Urss, con reminiscenze di tempi in cui i bolscevichi volevano “preparare il terreno per la gentilezza” ma la storia mostrava una realtà ben diversa.

Non siamo alla restaurazione di un’illusione prometeica o di un inesorabile determinismo storico. Non si prestava abbastanza attenzione al “vintage” delle bandiere rosse con falce e martello sventolate in parate, alle addizioni di una Storia totale che lascia spazio a revisionismi staliniani: un continuum dalla Santa Russia ai bolscevichi e oltre.

Si scavalcavano gli anni della stagnazione sovietica per tornare alla grandeur del Padre dei popoli e ai suoi svaghi devastatori. La scenografia di Anchorage è un meticoloso revival degli anni della Guerra Fredda, con contrasti e disgeli, manovre psicologiche proprio come allora e il confronto tra capitalismo e comunismo che si rivelava come una complicata partita tra due imperialismi.

Che impressione produce questa ripetizione di oggetti e gesti a cui non eravamo più abituati? Credo un’eccitazione molto simile a quella di chi ascolta le prime lezioni su argomenti dimenticati.

Quel punto nell’infinito è una memoria storica (manipolata) necessaria per comprendere la Russia attuale. Il concetto di potenza, però, non nel senso economico, bensì come potenza elementare, brutale e indiscutibile: cinquemila bombe atomiche, undici fusi orari di territorio, risorse naturali infinite,centocinquanta milioni di sudditi da spendere con centralismo e disciplina. Non c’è più il Partito che spiega; rimangono solo gli Onnipotenti Apparati. Essere potenza come destino manifesto, indipendentemente dalle ideologie.

Quello di Putin non è un ritorno all’Urss: non se ne è mai allontanato, biograficamente o politicamente. Era un modello perfetto di ideologia malleabile. Ha imparato il classico stile staliniano, semplicistico e minaccioso. È un pragmatico che ha notato come il mondo si conformi alla sua matematica della potenza e della prepotenza. In questo senso, Putin è semplicemente uno di noi.


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